Il mare unisce ciò che la terra separa. Sono parole sentite dal semiologo Paolo Fabbri, in una conferenza sull’opera di De Chirico. Simbolo di innumerevoli esperienze, viaggi ed esplorazioni, il mare si fa guardiano di storie e ingegnere di scoperte, racchiude – allo stesso tempo – la necessità di esplorare, l’istinto di conoscere e l’intenzione di conquistare. La volontà di sfidare il mare per accertare i caratteri del mondo, le leggi che governano la natura e il rapporto dell’uomo con lo spazio fisico ci rimanda a popoli scomparsi come i Fenici, a narrazioni epiche o ai racconti di Marco Polo e Cristoforo Colombo. La scoperta dell’America, per esempio, coincide con la nascita dell’età moderna e della geografia umana come disciplina scientifica: un disegno della terra che cerca di raccontare il mondo per immagini, prova la sfericità della terra e la certezza dell’abitabilità delle terre tropicali. Tra il 1492 al 1522 pare che l’ampiezza delle terre conosciute sia raddoppiato, tuttavia di esse non si conosceva altro se non il territorio costiero. Sfidare il mistero del di dentro, renderlo accessibile e disseminare interpretazioni che possano diventare cultura condivisa hanno come precondizione l’indole di mettere alla prova se stessi – la propria esistenza. Prima considerazione sullo spazio e tempo dell’essere. Silvia Fanti, scrivendo del lavoro di Chironi, dice che “l’approdo in ambito performativo avviene in modo naturale, originariamente come espansione ed elevazione a potenza […] della bidimensionalità della fotografia, a cui si aggiunge e si integra il corpo dell’artista”. In quest’ottica, si introduce al metodo di lavoro dell’artista: rigoroso, fisico, performativo, concettuale, stratificato, mai puro.
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Per il VI capitolo del Laboratorio del Dubbio, invitati a ragionare con Cristian Chironi su un possibile sviluppo inerente la Modernità attraverso la lente della sua ricerca, tutt’ora aperta, di My house is a Le Corbusier, siamo partiti dal conosciuto, dalla costa. Nati nella stessa isola, condividiamo una certa affinità per l’idea di mare come possibilità immateriale, e non come limite fisico, di connessioni culturali. Partire da una condizione parzialmente destrutturata, ci ha portato a focalizzare la nostra attenzione sulla presenza di Le Corbusier a Torino, città nella quale l’architetto svizzero non ha mai realizzato nessun progetto, ma che lo ha visto ospite per (almeno) tre volte: all’Esposizione delle Arti Decorative (1902) durante la quale presenta un elegante orologio da taschino, allo Stabilimento Fiat Lingotto (1934) per la celebre visita nella quale definì lo stabilimento come un documento per l’urbanistica moderna e al Convegno di Museologia indetto da ICOM (1961). In questo senso, iniziavano a delinearsi due prospettive. La prima è caratterizzante e manifesta, considerato che uno dei focus dell’attuale ricerca di Chironi consiste in un viaggio a più tappe, senza apparente prossima scadenza, per trascorrere un periodo di residenza nelle numerose abitazioni progettate dall’architetto francese Charles-Edouard Jeanneret-Gris, noto ai più come Le Corbusier. Le prime tappe di questa peregrinazione l’hanno portato ad abitare temporaneamente dentro l’Espirt Nouveau di Bologna, allo Studio-Apartment di Parigi e nell’Apartment 50 dell’Unité d’habitation di Marsiglia sviluppando una performance dilatata nel tempo, un’opera work in progress, un cantiere di idee e ricerca, una mostra e residenza allo stesso tempo. In queste circostanze Chironi applica quella che Le Corbusier definiva la sintesi razionalistica di tutte le attività umane nella Modernità: vivere, lavorare, circolare, aver cura del proprio corpo e della propria mente. La sua permanenza nel luogo diventa strumento per un processo di appropriazione collettivo di un patrimonio architettonico mondiale che – diversamente – rimarrebbe inaccessibile ai più. Un approccio performativo dilatato nel tempo e nello spazio che – incrociandosi con altri linguaggi dell’arte – dichiara uno stato mentale quasi politico, rivelato dalla pratica dell’autogestione dello spazio – richiamata anche in Bergson quando pone l’attenzione sull’elemento creativo come capacità dei sistemi fisici ad auto-organizzarsi in modi che sfidano l’aspettativa. Chironi interpreta le opere architettoniche di Le Corbusier come uno spazio differenziale, il luogo per antonomasia della co-presenza della diversità e l’esplicitazione del bisogno di luoghi qualificati, di simultaneità e di incontro nella condizione sociale contemporanea. Seconda considerazione sullo spazio e tempo dell’essere.
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La seconda prospettiva è più di carattere metodologico, poiché queste prime riflessioni ci hanno spinto a considerare l’attraversamento come un concetto fondante l’esperienza dei luoghi e come metodo applicativo al nostro lavoro insieme al Laboratorio del Dubbio. Se l’attraversamento è l’azione compiuta per arrivare a nuove scoperte, il mare è il ponte metaforico della messa in connessione. Assunto tale punto di vista, l’insieme di accumulo di informazioni, lo studio dei documenti ufficiali, la volontà di mostrare una campionatura dei lavori realizzati da Cristian nelle precedenti residenze lecorbusieriane e la possibilità di ri-significazione dello spazio, ci si presentavano come dispositivo oppositore ad un sapere linguistico rigido. Se Charles Baudelaire designava con Modernità la sfuggevole esperienza della vita condotta all’interno della città e la responsabilità dell’arte di catturare e formalizzare quel vissuto, mi sembrava plausibile considerare il modo di declinare la pratica artistica di Chironi come principio ordinatore di svariati punti di riferimento espliciti – anche sfilacciati tra loro – da verificare continuamente nella realtà, nella relazione con l’alterità. Quasi fosse una decostruzione derridiana nella quale Le Corbusier non è tanto l’oggetto dell’analisi – ma lo strumento per la ricerca e la ricostruzione del senso. Facendo un passo indietro nella sua produzione artistica, in Cutter (2010), Chironi introduce nell’aspetto performativo l’azione di intagliare dei libri illustrati per mezzo di un taglierino, tra i quali i diari di Robinson Crusoe, con fare meticoloso e attento. Un’azione che l’artista esegue anche in questa ricerca, applicandola ad altri supporti. Il gesto di ritagliare, scontornare e isolare immagini in maniera chirurgica determina delle nuove relazioni di senso tra le pagine e le superfici. In questa direzione emerge un ulteriore elemento che caratterizza il lavoro di Chironi: la traccia.
Dalla testimonianza di una incomprensione sul progetto di Corbu donato da Costantino Nivola al fratello Cischeddu, dalle corrispondenze dell’architetto svizzero, dal lavoro di un operaio che ristruttura la Cité de refuge, da una conversazione intrattenuta prendendo un caffè con un visitatore durante una permanenza lecorbusieriana, è possibile trovare il segno concreto e l’allegoria di un’alterità radicale. Ma il riconoscimento di tale traccia come possibilità non avviene per assimilazione osmotica, nell’immediato, bensì attraverso quello scarto corporeo legato al movimento, dalla differenza che diventa registro dell’essere e permette incroci culturali. E non è un caso che proprio il romanzo di Defoe sia stato letto, dalla cronaca letteraria, come un gesto seminale della modernità, l’inizio della lunga avventura del romanzo moderno ed una compiuta rappresentazione della soggettività occidentale.
Il segno di una presenza e di un’identità, quella di Chironi sardo di Orani, entrando in contatto con il labirinto del dubbio, con lo spaesamento cognitivo di nuovi elementi e con l’impossibilità di rappresentare una certezza immortale, riconosce un legame imprescindibile tra il segno ed il suo referente. Non esiste una rottura o un appiattimento radicale con l’oggetto d’analisi ma un attraversamento incessante, un abitare e percorrere i margini delle rappresentazioni veicolate dalla cultura dominante per generare nuovi spazi di rappresentazione. Atto e fatto artistico impiegano il tempo in uno spazio, con l’eventualità di emanciparsi dalla determinazione della vita quotidiana attraverso la pratica dell’abitare. La narrazione si ricompone muovendo da una molteplicità di racconti differenti, che si innescano l’uno con l’altro senza costituire – tuttavia – una totalità compiuta di senso, rimandando così ad un processo potenzialmente infinito ed epidemico di ibridazione.
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Per queste ragioni, dipanate in questi giorni di lavoro insieme, ed altre delle quali spero avremo modo di discutere nei prossimi mesi, per la prima giornata di Geografie della Modernità si è optato di adottare un format aperto sviluppato in due direzioni, alla luce delle varie declinazioni del Modernismo. Un open studio organizzato quasi fosse un giardino privato da percorrere e visitare, all’interno del quale è stata organizzata una campionatura dei lavori realizzati da Chironi durante le sue residenze. A questo si aggiunge una conversazione aperta nella quale si farà esplicito riferimento all’esperienza diretta dei luoghi da parte dell’artista – quasi a delineare un carattere etnografico presente in questo tipo di ricerca. Il punto di caduta è evidentemente antropocentrico, dove Chironi organizza un display narrativo a corredo della sua esperienza. Quasi come fossero appunti di viaggio, le opere e i materiali allestiti nello spazio del LDD cercano di sollevare un ulteriore variazione nel collegamento con un’altra idea di Modernismo: quella avanzata dal critico d’arte Clement Greenberg. Gli aspetti formali che pregnano le architetture vissute nella ricerca My house is a Le Corbusier si fanno sedimentazione culturale per evidenziare un ulteriore valore del segno e della materia, donando alle cose – attraverso il corpo di Chironi – una natura che si svincola dai valori classici della modernità meccanicistica e senza vita. Un nuovo approccio agli oggetti elide una visione tecnologica dell’essere che considera le persone come cose inerti e determinate, sottolineando la presenza dell’artista come mezzo di relazione per pensare una materialità non definita intorno alle persone e alle cose. Concentrarsi maggiormente sul tema della cura come possibilità formale e tentativo di nuova socialità determina una topografia del divenire, una qualità strutturale dell’esperienza che coinvolge significativi incontri tra culture, invenzioni tecniche e modalità impercettibili di restare locali.