… perpetuum mobile *
Per quanto sono rimasti chiusi all’interno?
Difficile a dirsi.
Di certo i due dimostrano una certa dimestichezza con il luogo. Non sembra, dunque, siano appena giunti.
Anzi.
Forse ripetono i loro gesti quasi impossibilitati ad inventarne di nuovi.
Come mossi da una forza di saturazione dei movimenti, riempiono lo spazio – stanco non-sense.
O invece trattasi di un più consapevole pensiero applicato attraverso un moto perpetuo – puntuale costanza.
Calcare, ricopiare, grattare, imballare, racchiudere, plastificare, ricoprire, scrivere, verticalizzare. Queste le azioni che tengono impegnati i due. Costantemente, e nonostante le illusioni limitative di un tempo in realtà circolare.
L’importante, dunque, è il movimento senza uno scopo. O forse è lo scopo stesso che cambiando direzione di continuo, genera movimento.
Certamente è il meccanismo che induce i due ad agire.
“Come una costrizione autoimposta”, si afferma.
Così, all’incirca.
Nel vortice il movimento incessante genera astrazione. E la sua forza centrifuga scarica oggetti e lettere tutt’intorno. Eppure senza caos. Fermarsi ha poco senso, i due non lo hanno fatto. Forse non gli era permesso e quindi hanno ripresentato l’ andamento.
Sicuramente gli elementi esposti hanno funzione accumulatrice. Assorbono, comprendono, e comportano una registrazione perpetua. Archivio di depositi e macchie. Su tutti, la copertura adagiata a terra che dissipa il tempo.
Persino noi osservatori non possiamo esimerci dall’azione e dal moto.
Ne siamo come portati, meglio, trascinati dentro.
Calpestare, approcciare, a volte chinarci. E’ la scena o forse la circostanza che invita a muoverci tra i suoi confini.
Dentro, in mezzo, ai margini.
Ma in qualunque modo, inclusi.
… scarti dei programmi spaziali *
Rottami sparsi su un letto di parole monche.
Più un magazzino di oggetti indecifrabili tenuti insieme da un manuale d’istruzione incomprensibile.
Eppure i componenti somigliano. O meglio, di fatto non li riconosciamo perché mai esistiti. Però si comprende come siano parte di ingranaggi o meccanismi più grandi. Come anche le parole appartengono a frasi che non abbiamo mai udito.
Non ri-col-lo-ca-bi-li altrove.
Rottami appunto, risistemati e ammatassati di cui si perde l’origine, perché scomparsa.
O forse neanche rottami. Piuttosto essenze di manufatti e frasi. Come se dagli oggetti se ne potesse estrarre un principio, un quid, un fondamento. Lo stesso per il testo: parole forse fondanti per il significato generale, singole lettere più significative di altre.
Eppure significato e forma sono impossibili da ricomporre. Azione inutile.
Forse si tratta di un rimescolamento di cose che non si appartengono. O forse ne sono stati troncati gli elementi connettivi.
Su tutto è in atto un fenomeno di spellamento evidente.
Gli ammassi di strati hanno l’effetto di assottigliare. Gli oggetti in scena mutano, quasi prosciugandosi senza mai però scomparire del tutto.
E’ probabile che facessero parte di programmi più complessi, la cui furia di sperimentazione manuale li ha resi fragili. Colpiti da un eccesso di zelo manipolatore, in fondo stridono.
Di sicuro sono stati portati da fuori, come delle memorie di realtà a venire.
Eppure questo processo, sembra li abbia resi incompiuti.
O forse, semplicemente, li ha ridefiniti.
… dunque non credi nella miniaturizzazione? *
La luce non aiuta.
Il grande finestrone sul fondo è diviso in una miriade di quadrati che miniaturizzano il vetro, lo frammentano, ed allo stesso tempo lo reticolano.
La luce, che entra frammentata, s’infrange sul pavimento che la riflette, togliendo nitidezza allo sguardo. Per questi motivi la vista è allo stesso tempo rarefatta e condizionata dalla griglia razionale della finestra.
Tutto sembra opaco, come una miopia.
Eppure così razionalmente organizzato.
Il soffitto ha due altezze diverse che spezzano lo spazio in due. Una parte sembra la miniaturizzazione dell’altra. Eppure i due rettangoli non hanno forme uguali. Ma i due sembrano non farci caso invadendo tutto l’ambiente senza frammentarlo, dividerlo o scomporlo in zone. E’ probabile, dopo tanto tempo, che non badino più agli spigoli, ma lo vivano come unica membrana.
Lo spazio induce a due reazioni diverse o forse genera due spinte. Cogliere dinamiche seriali, registrare l’effimero. Probabilmente nella diversificazione degli approcci si cerca di cristallizzare l’incertezza entro confini radicalmente opposti. Alla ricerca di una sicurezza impossibile da cogliere.
Orientamenti antitetici che producono binomi di visioni combacianti.
Eppure non sono i due, quanto lo spazio stesso che miniaturizza. Riduce tutti i corpi, li appiattisce, li orizzontalizza.
Varie sono le sfumature dell’unico colore presente, il bianco. Come una massa avvolgente che riempie i volumi e moltiplica la luminosità. Lo spazio si accresce grazie al suo stesso colore ma riduce i corpi presenti.
Forse i due non hanno coscienza di questo fenomeno. E continuano a confidare nell’applicazione di gesti indelicati e ripetitivi.
Oppure essi stessi scompaiono dentro le loro pose avvolti dall’effetto colore.
Di sicuro in questo processo di miniaturizzazione qualcosa si perda.
Si genera come un effetto di omologazione, quasi fosse una veduta dall’alto in cui tutte le cose si assomigliano, e la materialità viene meno.
In fondo, una (meta)fisica della rarefazione.
*Iosif Brodskij, Marmi, trad. di Fausto Malcovati Piccola Biblioteca Adelphi 1995, p. 13, 16, 19