Francesca Picchi: La tua ricerca si esprime spesso attraverso la tessitura, l’intreccio, la maglia. Durante tutto il corso degli anni Settanta, un gruppo di artiste, tra cui Lenor Tawney, Magdalena Abakanowicz e Sheila Hicks, diedero vita al movimento Fibre Art attivo nel riconoscere al tessuto una forza espressiva che nell’arte non gli era stata riconosciuta: questo portò a identificare il tessile con lo status di pratica femminista. Come ti poni rispetto a questi riferimenti?
Paola Anziché: È una ricerca che amo molto, però ne colgo anche le differenze. Quando le artiste della Fibre Art realizzavano gli arazzi, erano veramente degli arazzi. Seguivano delle tecniche precise, per cui anche le irregolarità della maglia rappresentano delle deviazioni coscienti dalle regole implicite nella tecnica di produzione. Io non ne ho una tecnica precisa. Uso semplicemente una materia – la fibra – e la lavoro, quasi per metterla alla prova. Coltivo il dubbio: non so cosa verrà fuori. Non succede quasi mai che mi prefigga un risultato.
FP. Questa continua reinvenzione della tecnica ti aiuta a mettere a fuoco un’immagine. È così?
PA. Non è un’immagine che ho fissa nella mente, però esiste. Cerco di raggiungerla e in questo percorso sono aiutata da elementi imprevedibili. Direi anzi che hanno un peso determinante. Ho sempre pensato che le circostanze aleatorie abbiano un ruolo e che, in generale, il caso ‘apra’ il lavoro. Il fatto di non sapere che lavoro andrò veramente a creare, quale sarà l’immagine finale, crea nuove potenzialità perché l’opera si offre a chi la guarda (o la tocca e la muove), rendendosi disponibile ad essere “aperta” anche dagli altri. Nel caso degli “intrecci” – i lavori fatti con la stoffa – le forme sono emerse da sé, senza voler creare l’immagine di un paniere o di una cesta. Queste forme, piuttosto, sono il risultato dall’impossibilità di attorcigliare, di intrecciare, di lavorare questi materiali tra loro. Da questo limite si è generata la forma.
FP. A me pare che questa continua riappropriazione dei gesti e delle sue liturgie in cui rimetti continuamente in gioco le regole, sia il presupposto per una creazione in presa diretta sulla materia, che non richiede strumenti complessi né in fondo un sapere specifico. In questo esprime anche il piacere dell’indugiare su una forma, quasi per aiutarla ad apparire. Questo fatto mi richiama alla mente le architettura in terra cruda (che tu citi a proposito delle ceramiche) perché accade proprio che l’architetto si trovi a rimodellare, reinterpretate, rivitalizzate il suo vocabolario di forme, ogni anno, dopo ogni stagione delle piogge, come in una festa rituale.
PA. È un processo in cui mi ritrovo perché reinventare le tecniche fa parte del mio lavoro. Nel caso degli “intrecci”, per esempio, sono partita dal raccogliere una serie di fibre naturali diverse, quindi foglia di paglia, fibre di canapa piuttosto che saggina, vimini, sughero… Nell’impossibilità di intrecciarli tutti insieme e nel non trovare un risultato che mi soddisfacesse, ho deciso di riportare l’immagine di quegli intrecci sul tessuto e di re-intrecciarli grazie a un supporto unico: la stoffa ha avuto il compito di fare da connettore per tenere insieme le differenze.
FP. Hai detto che il caso ha sempre un ruolo. Riguardo alle “lane”, qual è stato?
PA. L’occasione è stata una residenza in Azerbaijan, a Baku, grazie a Fare Arte e a Yarat Contemporary Art Organisation. Da questa residenza è nata la mostra “The Fibers of Baku, a portrait of the city”. Mentre ero a Baku mi rendevo conto di cercare una città immaginaria, o perlomeno una Baku che non esiste più, travolta dagli effetti dell’economia del petrolio e dell’egemonia sovietica. L’idea, anche “romantica”, della città lungo la via della seta che mi ero fatta sembrava svanita per sempre. Per cui ho quasi costretto le persone che mi introducevano nel tessuto creativo e culturale della città a portarmi in quei luoghi rimasti intatti, o perlomeno che conservassero una traccia di una tradizione ormai sepolta, travolta dal capitalismo che ha cancellato l’identità della città: le persone stesse sembrano quasi non sapere più quale identità possedere.
L’immagine della Baku contemporanea si è omologata a quella di tante altre capitali cresciute troppo in fretta. Anche rispetto all’architettura hanno mantenuto pochissimi esempi della loro storia. Tra questi è rimasto il tempio zoroastriano Ateshgah, dal nome di origine persiana, che può essere tradotto casa del fuoco. È un antico luogo di culto dove si trovano sfiatatoi di gas naturale su cui è stato costruito un piccolo tempio. Oggi, è talmente circondato da pozzi e trivelle, che lo sfruttamento selvaggio e indisciplinato delle risorse di gas e petrolio ne ha estinto la fiamma. Nello stesso tipo di paesaggio, appena fuori Baku, lungo l’antico tracciato della via della seta, in una distesa disordinata di trivelle e pozzi di petrolio, esiste una moschea che ora si trova all’interno di una serie di stratificazioni diverse perché ogni viandante, per propiziarsi il viaggio, si fermava a pregare e andandosene lasciava delle offerte che, con gli anni, hanno permesso di ampliare la costruzione. Appena varcata la soglia, si è come trasportati in un’altra dimensione. È un luogo delle meraviglie. Il nucleo centrale è una piccola stanza del colore della sabbia del deserto.
Quando mi sono trovata dentro la sala della preghiera, mi sono accorta di non essere mai stata prima di allora in un luogo di culto vuoto, perché se penso alle nostre chiese, penso a un luogo denso, talmente pieno di immagini, di decori, statue, presenze di ogni tipo da confondere e disperdere l’attenzione. In questo luogo disadorno, invece, alzando gli occhi verso il centro della cupola, ho provato l’impressione di essere avvolta dall’architettura, dal vuoto. Il rivestimento di grandi lastre di marmo bianco riflettono tutt’intorno una luce diffusa che diventa verde brillante al contatto con il rivestimento di mosaico mentre a terra, i tappeti per la preghiera tendono ad attutire ogni suono. In questo luogo per la prima volta ho percepito con forza la presenza dell’alto. È un’impressione che da allora porto dentro di me ed è stata proprio quest’immagine a ispirare il lavoro delle “maglie”. Negli stessi giorni, mentre visitavo altri luoghi, ho incominciato a immaginare la mia mostra come un ritratto della città. Un mio personale ritratto che raccontasse i luoghi ma anche gli incontri con le persone. Quest’idea è confluita in una serie di sculture in tessuto.
FP. Mi ha sempre colpito il respiro architettonico dei tuoi lavori (è un fatto che si è rivelato con più evidenza con le Yurte) perché il fatto di adottare la tessitura per creare uno spazio chiuso, avvolgente, intimo (quasi un interno) come nel caso delle “lane” apre una corrispondenza interessante con la teoria di Gottfried Semper secondo la quale l’origine dell’architettura coincide con l’avvio della tessitura. Quasi che la tessitura sia una tecnica per creare spazi prima che per rivestire il corpo. Malgrado tutto, tra l’architettura e l’abito esiste un’affinità strettissima – che ci siamo proposte di indagare – rivelata anche dal linguaggio, dato che per esempio in tedesco le parole parete e abito provengono dalla stessa radice (Wand-Gewand). Però tornando alle “lane”, puoi raccontare come ha preso forma questo dialogo con l’architettura?
PA. Quando ero a Baku cercavo i tessuti che descrivessero l’identità della città o la sua storia. In questo modo ha preso forma l’interesse per la lana dato il legame con il tappeto che è un oggetto centrale della loro cultura. Visitando un laboratorio di tessitura ho chiesto se mi vendevano la lana che ho comprato a chili: una lana grezza di colore avorio che ha un odore pungente. Ho associato questa lana alla cupola della moschea e ho iniziato a lavorarla per cerchi concentrici. Man mano che prendeva forma, muovendo con le mani quest’intreccio allo stato ancora iniziale, mi piaceva l’idea di creare un’architettura con cui potersi vestire. È da qui hanno preso forma “le maglie”. Poi con altre stoffe ho fatto altri ritratti di luoghi o situazioni e il lavoro finale è confluito nel lavoro “Le fibre di Baku”.
FP. A partire da Tapis A Porter, il tappeto è un punto di partenza del tuo lavoro che si presta ad essere letto quale metafora dell’intreccio nel suo rapporto tra trama e ordito (textum). Nel caso delle Yurte hai intrecciato nastri di yuta ricavati tagliando sacchi per il caffè usati per realizzare i tuoi “vestiti a divisioni multiple, scafandri” “oggetti sensoriali” “più luoghi che opere”- (mi piace metere in fila queste definizioni di Pierre Restany a proposito dei roupa-corpo-roupa di Lygia Clark perché so essere un riferimento importante del tuo lavoro). Quando mi chiesi di scriverne, scoprii che l’85% della produzione mondiale di yuta si ottiene dalla lavorazione di una pianta che cresce sulle rive del Gange. Una volta filata, intrecciata e cucita viene utilizzata per creare sacchi per il trasporto del caffè, iniziando così a viaggiare attraversando i continenti. Tu hai rispettato le tracce di questa vita precedente e le immagini che il materiale si porta con sé facendo in modo che questa storia della materia entrasse a far parte del lavoro. Lo stesso atteggiamento lo ritrovo ora per le “lane” a proposito della materia. Mentre cercavi con una certa difficoltà la lana grezza per le tue “lane” – dato che i lanifici sono ormai inesistenti in Italia – abbiamo discusso di queste storie immaginando un viaggio attraverso i luoghi e le persone sopravvissuti alla “rottamazione” delle pecore da lana voluta nel dopoguerra: una politica che ha ridotto drasticamente la popolazione di pecore e conseguentemente ha cancellato i lanifici in Italia. In questo senso vorrei che parlassi del ruolo dei materiali nella tua ricerca formale?
PA. I materiali mi appassionano. Ho un approccio che parte dalla materia. Quando trovo dei materiali che mi attraggono la prima cosa che faccio è cercare di lavorarli per vedere il risultato di questa loro “chiamata”. Mi piace dire che vedere con le mani è l’espressione che descrive meglio il mio lavoro. Realizzo oggetti con materiale di recupero o che si incontrano normalmente nella vita quotidiana. Sono sempre alla ricerca di materiali apparentemente semplici, materiali grezzi, d’uso comune come la corda, la juta, il cartone e più in generali i tessuti. Quando sono rientrata dall’Azerbaijan e ho approcciato la ricerca della lana grezza per realizzare le “maglie” da esporre qui nel Laboratorio del Dubbio, mi sono accorta che la lana che si trova in Italia è troppo raffinata e spesso è priva di quella consistenza in grado di dare una struttura rigida alla “lana”, rendendola autoportante. Nello stesso tempo questo limite mi ha permesso di avviare una sperimentazione con diversi filati, con lana grezza dura, lana merinos, lana per feltro, alpaca, canapa pettinata, fili di yuta. Mi piace che si producano effetti molto diversi. Ogni volta imparo qualcosa di nuovo. In questo momento sto lavorando la canapa usata dagli idraulici come guarnizione nel connettere i tubi. Un tipo di sperimentazione analogo ha riguardato anche la terra per le “ceramiche” dove l’aspetto sonoro è centrale per segnare la presenza di una soglia da oltrepassare. Mi sto dedicando alla cottura di terre diverse e nel far questo mi sono accorta per esempio che, a seconda della presenza di ossidi di ferro, le ceramiche producono suoni diversi. Questi suoni mi servono a restituire il senso dell’attraversare una soglia. Questo, per confermare che i materiali e le loro storie sono al centro del mio lavoro.